Lo “storico del presente” ha sempre un vantaggio: poter cogliere un segno, un’intuizione o una possibile idea del “come sarà”, osservando gli eventi e cercando di cogliere nel non detto – che in politica rappresenta almeno il 70/80% di ciò che avverrà – la verità giornalistica. Per i giornalisti più ambiziosi l’obiettivo è quello di giungere ad una “predizione”.
Lo storico, invece, deve attendere molto tempo per poter stabilire quella verità che il giornalista ha inseguito velocemente e voracemente. Tra il lavoro dello storico e quello dello “storico del presente” vi è, comunque, un passaggio: la possibilità di valutare diverse fonti in grado di smentire o confermare quanto “intravisto” o raccontato.
Da collezionista ostinata considero gli archivi un patrimonio prezioso capace di regalarci un ricordo vivido non del passato, bensì del presente. Proprio per questo, forse, Putin, consapevole delle ragnatele scomode della Storia del suo Paese (Katyn è solo un esempio), ha deciso di bloccare l’accesso agli archivi del KGB fino al 2040.
Rovistando tra le mie copie di “Internazionale”, ho ritrovato un vecchio numero del 2003 (12/18 dicembre 2003, n° 518, Anno 2011) e, in particolare, un articolo di David Remnick (“Il nuovo Zar”, The New Yorker) che, in parte, aveva già compreso la direzione, i valori, il mix di ideologia e simbologia che Putin avrebbe scelto per la sua inarrestabile (e oggi lo sappiamo bene) ascesa al potere. Ecco un punto importante del suo articolo:
“Eltsin si è lamentato pubblicamente del suo successore in una sola occasione: quando Putin ha appoggiato il tentativo di reintrodurre l’inno ufficiale sovietico, composto, con l’approvazione di Stalin, nel 1943. Putin si era rivolto allo scrittore ultraconservatore Serghej Mikhalkov, che aveva contribuito a scrivere i versi dell’era sovietica (“Partito di Lenin, forza del popolo/continua a guidarci verso il trionfo comunista”) perché scrivesse un nuovo testo adatto all’era moderna: “Dai mari del Sud alla regione polare/Si estendono le nostre foreste e i nostri campi,/sei unica al mondo, inimitabile,/terra natia protetta da Dio.”
Eltsin ha considerato un affronto questa resurrezione. Aveva sostituito la bandiera rossa dell’era sovietica con il tricolore dell’era zarista e la falce e il martello con l’aquila bicefala, un simbolo che risaliva al quindicesimo secolo. Per tutta l’era Eltsin al posto dell’inno nazionale le orchestre avevano suonato un’opera di Mikhajl Glinka del 1833, Un canto patriottico, una melodia senza parole. L’inno di Putin era un oltraggio al movimento democratico. Il ragionamento di Putin a favore di quella che i russi chiamano una collezione “postmoderna” di simboli – alcuni zaristi, altri sovietici, altri ancora sui generis – rientra nella sua strategia “tutto-per-tutti”. La maggior parte dei russi non soffre per la perdita dell’ideologia comunista o del dominio sull’Europa orientale, ma rimpiange la passata grandezza dell'”impero interno”, le repubbliche non russe che oggi sono indipendenti. L’Unione Sovietica, come prima l’impero zarista, suscitava rispetto e timore in tutto il mondo e l’inno era in linea con quei sentimenti. Putin riscuote sempre gli applausi della folla quando dice: “Chiunque non si rammarichi per il crollo dell’Unione Sovietica non ha cuore, ma chiunque voglia ricostruirla non ha cervello.” Quello di Putin è un inno alla grandezza del passato e una promessa di farla tornare: un sentimento popolare e unificante.”
Queste sono solo alcune delle riflessioni che Remnick aveva maturato nel 2003. Un pensiero che risulta essere pienamente confermato dall’attuale gestione putiniana del potere (tralasciando, ovviamente, altre considerazioni relative alle strategie di politica economica). Il 30 maggio 2016, nel corso della sessione del Presidium del Consiglio economico della Presidenza della Federazione Russa, Putin ha “promesso di proteggere l’autonomia e l’indipendenza dello Stato fino alla fine della sua vita” (“Putin respinge proposta su linea morbida con Occidente: ‘sovranità non in vendita’”, http://it.sputniknews.com, 30 maggio 2016).
Questo ideale di sovranità ha assunto con Putin una veste “antica”, ossia quella zarista, che si basa sul concetto di “sacro suolo della Terra russa” e non quella comunista che vedeva nell’ideologia il fattore di coesione della società sovietica. Il richiamo è, dunque, agli Zar della Storia quali, ad esempio, Ivan il Terribile e Pietro il Grande e agli eroi nazionali come Aleksandr Nevskij (1220-1263), abilmente ritratto dal grande Maestro Ėjzenštejn:
“Andate a dire a tutti gli abitanti dei Paesi stranieri che la Russia è viva. Vengano tutti a trovarci senza paura. Ma chi verrà da noi con la spada in pugno di spada perirà! Questa è la legge che regola la vita della sacra terra di Russia.”
Una sovranità in espansione – com’è accaduto per una parte del territorio ucraino e per la Crimea – o in perenna difesa, come dimostra la crescente preoccupazione manifestata da Putin nei confronti dell’allargamento ad est o, come viene percepito, dell’accerchiamento da parte della NATO: la volontà finlandese di aderire alla NATO stessa lo dimostra.
Al culto del “Numero Uno”, celebrato nelle matrioske (accanto ad altri Zar), nei gadget, nelle t-shirt, nei profumi etc. si affiancano una strisciante tendenza, condannata ufficialmente da Putin, a “riportare in vita” la figura di Stalin
“Vladimir Putin has […] authorised a new monument to victims of political repression to be unveiled later this year. Yet the perception of Stalin as an “effective manager” has significantly risen under Putin, while Stalin-era rhetoric has returned. Opposition figures are increasingly branded “enemies of the state” again and non-governmental organisations labelled “foreign agents.*”
e, nel contempo, un giudizio fermo e critico, espresso ufficialmente dopo una lunga attesa forse per non turbare i “nipoti di Lenin”, nei confronti di Lenin stesso (e del Governo bolscevico), accusato di aver “piazzato” a “time bomb under the state.**”
A suggellare il potere zarista di Putin ci ha pensato la Chiesa Ortodossa nella persona del Patriarca Kyrill, che ha legato in maniera indissolubile potere temporale e spirituale investendo, così, Putin di una sacralità e autorevolezza in grado di condizionare fortemente il tessuto socioculturale e normativo del Paese (basti pensare al caso delle Pussy Riot). A tale proposito, consiglio vivamente di vedere “Leviathan”, un film, a dir poco raggelante, del 2014 diretto da Andrej Zvjagincev e premiato ai Golden Globe del 2015.
Il riconoscimento di Putin quale unico Zar e, nel contempo, Servitore dello Stato di matrice KGB (secondo alcune fonti, la famosa lettera di dimissioni dal KGB pare non essere mai pervenuta al destinatario) capace di riaffermare i valori dell’Impero perduto è ulteriormente rafforzato dal culto della Persona, amplificato in chiave pedagogica e paterna per le masse russe.
Tornando all’articolo di Remnick, il disegno di Putin si sta completando giorno dopo giorno nella direzione indicata, ovviamente con le dovute variazioni legate alla contingenza geopolitica ed economica.
Ma sono passati 13 lunghi anni. E ancora oggi sono in pochi a saper prevedere e prevenire le mosse di Putin.
Lo scollamento tra il percorso dell’Orso russo e la mentalità politica dell’Occidente è molto profondo. Ma l’elemento più grave è certamente la tendenza occidentale a sottovalutare o valutare solo in un’ottica di breve periodo le mire di Putin. Basti pensare al conflitto in Siria, che ha regalato alla Russia la gestione di una fetta consistente del Medio Oriente. Come disse alcuni mesi fa il Ministro degli Esteri russo Lavrov, il Medio Oriente e il Libano sono considerati dalla Russia stessa “as a whole”.
La Russia si informa, osserva l’Occidente, lo studia, mantiene rapporti costanti con alcuni Paesi situati in punti strategici per l’Europa e il sistema internazionale: per capirlo è sufficiente controllare il flusso informativo sui social network e sui media tradizionali o ascoltare i discorsi del Presidente (e degli esponenti del suo Governo).
Ma noi ci informiamo? I nostri esperti di politica internazionale (non dico solo a livello nazionale ove vi sono sovietologi capaci e brillanti) conoscono davvero la forma mentis del Presidente e dell’opinione pubblica?
Nell’editoriale del 1° numero del 2016 di “Limes” dedicato al “mondo di Putin” è illustrato perfettamente non solo il concetto, ma anche il sentimento di “impero”:
“Impero è chi pretende di esserlo ed è come tale percepito, nella lunga durata, dai principali attori sulla scena planetaria. La dimensione spirituale degli imperi spiega perché tendano a sopravvivere virtualmente alla loro scomparsa fisica, quasi supernove che irradiano lo spazio ben dopo l’esplosione. L’essenza dell’impero sta infatti nella sua irriducibilità alle mere istituzioni e prerogative statuali classiche, nazionali o meno. Gli imperi si distinguono per il rifiuto di allinearsi agli altri Stati nella rete delle relazioni internazionali in quanto si considerano essi stessi sistema.”
Ora che alcuni tasselli del sistema di potere definito nel dopoguerra e l’architettura istituzionale europea stanno cedendo lentamente e considerata l’assenza di veri statisti, nella definizione e relativa “manutenzione” dell’asse (reale) Est – Ovest, bisogna superare, a mio avviso, il vecchio ed errato storytelling sulla Guerra Fredda (vi è ancora? Non vi è più? Forse rinasce? La Guerra Fredda, in realtà, si è solo evoluta) spesso utilizzato anche da Putin stesso a fini propagandistici, ripensando strumenti “politici” di scambio economico, diplomatico, culturale e “linguistico” (“Le parole sono performanti”) in grado di allineare aspirazioni russe (sintetizzate perfettamente nel concetto di “sistema” introdotto da “Limes”) ed esigenze occidentali.
La creazione di un proficuo rapporto con la Russia dovrebbe essere portata avanti proprio mentre i Paesi occidentali riorganizzano il proprio assetto geopolitico e istituzionale. Un’occasione di ricostruzione che andrebbe a sanare la fragilità politica collettiva che vede vacillare i vecchi equilibri cui si è abituati da più di 50 anni.
Un Occidente distratto, superbo e foriero di visioni stereotipate della Russia è forse il regalo più grande che possiamo fare a Putin. Cerchiamo di non commettere questo errore per la seconda volta.
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Nota:
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